L’annoso problema dell’applicazione del prezzo massimo di cessione in materia di cessione di alloggi realizzati in regime di “edilizia agevolata” sta vivendo notevoli sviluppi dal punto di vista giurisprudenziale , dovuti al “caos” che negli anni ha interessato tale fattispecie.
Gli alloggi realizzati nell’ambito di tale edilizia convenzionata-agevolata, nel tempo, infatti, sono stati oggetto di una normativa spesso lacunosa e farraginosa che, principalmente nell’ipotesi di assegnazione in diritto di proprietà, aveva imposto vincoli molto stringenti alla loro commerciabilità per evitare azioni speculative.
Difatti, erano previsti sia divieti temporali di rivendita, sia limitazioni alla determinazione del prezzo di vendita, così come al canone di locazione.
I divieti di vendita che riguardavano, si sottolinea, solo le aree cedute in diritto di proprietà, sono poi venuti meno in seguito alla legge “Ferrarini Botta” , la legge n.179/1992, entrata in vigore il 15 marzo 1992.
Il Comune, nella convenzione stipulata con il soggetto utilizzatore, in sintesi, stabilisce che possa essere imposto un prezzo di cessione (o canone di locazione) massimo e che venga prevista una serie di parametri e criteri per fissare ed aggiornare sia il prezzo che il canone massimo previsto per gli alloggi che verranno poi edificati e ceduti a terzi anche in locazione dal detto utilizzatore.
Nelle convenzioni stipulate dal Comune di Roma, ad esempio, non è spesso agevole rinvenire una clausola che con certezza operi una estensione dell’obbligo di osservare il prezzo massimo anche nelle cessioni successiva alla prima (sic!).
Tale mancanza di chiarezza originaria ha indotto molti di coloro che intendevano vendere l’alloggio acquistato dal costruttore e/o da una Cooperativa sito in un piano di zona a richiedere al Comune interessato l’autorizzazione a vendere ad una data cifra secondo prassi, che possiamo definitivamente etichettare come “discutibili”.
Tale era l’incertezza generata che, ad esempio, la stessa Corte di Cassazione con la sentenza n.13006 del 2000 ed il Consiglio Nazionale del Notariato con risposta a quesito n.5921/2005, così come la Regione Piemonte con un suo parere n.132/2009, si sono visti investiti dei “dubbi” di migliaia di cittadini ed hanno dato il loro parere, tutti concordando sulla non applicabilità del prezzo massimo alle cessioni successive.
Successivamente il Comune di Roma con nota in data 2 dicembre 2010 prot . n 71370, ribadiva, per una convenzione stipulata nell’anno 2000, la non applicabilità alle cessioni successive alla prima del detto prezzo massimo garantito. Inoltre, con nota del 21 febbraio 2013, l’Ufficio Edilizia residenziale pubblica di Roma Capitale prendeva posizione sulla legge n.106/2011 (che disciplina la facoltà di conseguire tramite apposita convenzione con il Comune, l’affrancazione dal prezzo massimo di cessione dell’alloggio così come previsto dalla legge n.865/1971) affermando che tale normativa possa trovare applicazione soltanto in quei casi nei quali la convenzione con il Comune di Roma espressamente ponga dei limiti di prezzo nelle alienazioni successive alla prima. E continuava, affermando esplicitamente che gli schemi in vigore delle convenzioni con le quali il comune di Roma procede sia all’attribuzione dell’area in diritto di proprietà che di superficie non prevedono limitazioni nella determinazione del prezzo di cessione per i trasferimenti successivi al primo tra Comune e soggetto realizzatore dell’intervento.
Di contro, una sentenza del Tribunale civile di Roma, Sez X, in data 2 maggio 2014, investita del problema del prezzo massimo di cessione, dichiarava l’applicabilità del prezzo massimo di cessione anche alle cessioni successive alla prima per gli alloggi realizzati in diritto di superficie. La sentenza traeva argomenti delle modifiche avvenute al testo della legge n.865/1971 nella disciplina relativa sia alle aree assegnate in diritto di superficie che in diritto di proprietà e rilevava principalmente due elementi che confermerebbero l’applicabilità del divieto agli atti successivi al primo: innanzitutto il nuovo comma 49 bis dell’art.31 della legge n.448/1998 che prevede lo strumento della convenzione in forma pubblica per eliminare i vincoli relativi al prezzo massimo di cessione, ovvero del canone massimo di locazione, argomentando che tale norma non avrebbe un valido significato qualora i vincoli riguardassero solo la prima cessione; inoltre, dal fatto che la norma dell’art.35 della legge n.865/1971 costituirebbe una norma imperativa la cui violazione darebbe luogo alla nullità parziale del contratto ex art 1418 c.c. limitatamente alla clausola relativa al prezzo difforme da quello indicato dalla convenzione come prezzo o canone massimo. Da ciò, secondo la citata sentenza, deriverebbe la declaratoria della nullità parziale del contratto di cessione dell’alloggio ad un prezzo superiore a quello massimo con la sostituzione automatica della clausola del prezzo concordato con il prezzo statuito dalla convenzione con il Comune o dai criteri e parametri in essa contenuti.
Successivamente, con provvedimento depositato in cancelleria il 4 luglio 2014, la seconda sezione civile della Suprema Corte di Cassazione decideva di rimettere alle Sezioni Unite la decisione di una causa che nella sostanza ricalcava la vicenda che ha dato luogo alla decisione sopra citata del Tribunale di Roma.
La sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, n. 18135 del 16 settembre 2015, (confermata e ribadita dalle Sentenza, sez. II, n. 21 del 3 gennaio 2017 che così dispone “Il vincolo del prezzo massimo di cessione degli alloggi costruiti, ex art. 35 della l. n. 865 del 1971, sulla base di convenzioni per la cessione di aree in diritto di superficie, ovvero per la cessione del diritto di proprietà se stipulate, quest’ultime, precedentemente all’entrata in vigore della l. n. 179 del 1992, qualora non sia intervenuta la convenzione di rimozione, ex art. 31, comma 49-bis, della l. n. 448 del 1998, segue il bene, a titolo di onere reale, in tutti i successivi passaggi di proprietà, attesa la “ratio legis” di garantire la casa ai meno abbienti ed impedire operazioni speculative di rivendita; in tal caso, pertanto, la clausola negoziale contenente un prezzo difforme da quello vincolato è affetta da nullità parziale e sostituita di diritto, ex artt. 1419, comma 2, e 1339 c.c., con altra contemplante il prezzo massimo determinato in forza della originaria convenzione di cessione”. E successivamente ribadito nella Sentenza, sez. II, n. 28949 del 4 dicembre 2017) ha composto, quindi, un contrasto giurisprudenziale che proseguiva da lungo tempo, fornendo, a tal riguardo, dei chiarimenti che hanno messo in moto una serie di azioni legali, che hanno interessato ed interessano migliaia di cittadini.
La Cassazione distingue gli immobili costruiti in base alle convenzioni stipulate tra Comuni e imprese costruttrici ai sensi dell’art. 35 della Legge 22 ottobre 1971, n. 865, dagli immobili di edilizia convenzionata ex legge 10/1977, specificando che mentre per questi ultimi la Legge individua chiaramente nel solo costruttore il destinatario dell’obbligo di contenere il prezzo di cessione degli alloggi entro i limiti indicati nella convenzione, per i primi il limite massimo di prezzo segue il bene anche nei successivi passaggi di proprietà.
I supremi Giudici giungono a questa conclusione sulla scorta del comma 49 bis dell’art. 31 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 nel quale è dato chiaramente leggere che i vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze possono essere rimossi dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dal primo trasferimento con convenzione in forma pubblica soggetta a trascrizione, stipulata a richiesta del singolo proprietario, nella quale sia determinato il corrispettivo dovuto al Comune per tale facoltà. In assenza di tale convenzione, pertanto, anche i passaggi di proprietà successivi al primo devono prevedere un prezzo di cessione contenuto entro i limiti fissati dalla convenzione originaria.
Quindi, nel contratto di compravendita stipulato, la clausola che dovesse contenere una determinazione del prezzo di cessione superiore al limite stabilito dalla convenzione sarebbe affetta da nullità ex art. 1418 c.c (contrarietà a norme imperative) e verrebbe sostituta mediante inserzione automatica del corrispettivo imposto dalla legge (articoli 1339 e 1419 c.c.).
In estrema sintesi, nella sentenza citata si dichiara che laddove un immobile costruito in regime di edilizia convenzionata ex legge 22.10.1971 fosse venduto da un privato ad un prezzo superiore a quello stabilito dalla convenzione stipulata tra originario costruttore e Comune, l’acquirente può far valere la nullità della clausola relativa alla pattuizione del prezzo in ogni momento (essendo la relativa azione imprescrittibile) e può anche richiedere la restituzione del maggior prezzo corrisposto al venditore entro i termini decennali di prescrizione.
Non solo, viene anche espressamente ribadito che il nuovo comma 49 bis dell’art.31 della legge n.448/1998 introdotto dal D.L. n.70/2011 convertito nella legge n.106/2011 consente sia ai titolari del diritto di proprietà superficiaria che ai proprietari (il cui acquisto è avvenuto ante 1992) di eliminare i vincoli del prezzo massimo con apposita convenzione in forma pubblica, da stipularsi dal singolo proprietario dell’immobile con il Comune, una volta che siano trascorsi almeno cinque anni dalla prima assegnazione versando la somma determinata dal Comune stesso (affrancazione).
Su Roma, nello specifico, con la delibera del Commissario Straordinario n. 33 del 17 dicembre 2015 sono state definite le modalità per l’eliminazione dei vincoli relativi al prezzo massimo di cessione gravanti sugli alloggi realizzati in aree PEEP e contestualmente è stato approvato lo Schema di Convenzione integrativa per l’affrancazione di tali vincoli.
Successivamente con la delibera n. 40 del 6 maggio 2016 del Commissario sono stati specificati i criteri per la rimozione dei detti vincoli e per la determinazione del valore venale delle aree interessate.
Quindi, i proprietari degli immobili ricadenti nelle aree interessate, che vogliano vendere il loro immobile a prezzo di libero mercato devono presentare apposita domanda all’Amministrazione di Roma Capitale, versare il corrispettivo per la rimozione del vincolo e sottoscrivere con Roma Capitale apposita convenzione integrativa.
Infine, per dovere di cronaca e correttezza, si fa espressamente presente che con un‘ordinanza del 17 aprile 2018 (G.I. dott. Perinelli) il Tribunale di Roma, contrariamente a quanto esplicitamente dichiarato nella sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite summenzionata, ha rigettato la domanda di un acquirente che aveva acquistato l’immobile a prezzo di mercato e chiedeva la restituzione di 177 mila euro quale prezzo eccedente quello massimo di cessione, limitando la condanna a carico del venditore esclusivamente alle somme necessarie per ottenere l’affrancazione dell’immobile.
In questa recente pronuncia è confermata, come in altri procedimenti, l’assenza di responsabilità del notaio per la compravendita e si stabilisce che: “I ricorrenti chiedono la restituzione del prezzo pagato in eccesso rispetto al prezzo massimo di cessione. Questa richiesta sarebbe pienamente legittima ove l’ordinamento non concedesse altri rimedi per liberare il bene e pertanto il vincolo del prezzo massimo fosse destinato a seguire il bene – quale onere reale – per tutti i trasferimenti futuri come affermato dalle Sezioni Unite. In realtà così non è, perché è riconosciuto al proprietario di procedere all’affrancazione del bene pagando un prezzo“.
L’ordinanza del 17 aprile 2018 inoltre precisa che “La scelta dei ricorrenti dell’opzione della restituzione del prezzo eccedente quello massimo in luogo dell’affrancazione, per la loro utilità, con aggravamento ingiustificato della posizione dei resistenti, deve considerarsi lesiva del principio di buona fede e costituisce pertanto un’ipotesi di abuso del diritto“.
Tale provvedimento, ad oggi in sede di appello, è, ad oggi, un unicum ed è già stato superato da altri provvedimenti dello stesso Tribunale di Roma, che hanno ripreso e riprendono i dettami della Sentenza della Cassazione a sezioni Unite del 2015.
Ad ogni buon conto, dalla disamina in sintesi della controversa questione, dallo stato dell’arte e dal conseguenziale fermento che ad oggi ruota sui Piani di Zona e sulle responsabilità che hanno portato a questa disastrosa situazione, non possiamo che auspicare un intervento risolutivo che tenga presenti sia i diritti dei venditori (principio dell’affidamento, per molti, ma non per tutti!) che quelli dei compratori, in un ottica di salvaguardia e di giustizia, evitando intendi speculatori, anche di ritorno.
Nell specifico, quello che si consiglia, prima di intentare una causa vera e propria, legittima e per molti necessaria, è di cercare di trovare un accordo stragiudiziale che possa ristabilire degnamente i diritti lesi.