Con una recente sentenza (C.C., sez. lavoro, n. 15082/2016) la Corte di Cassazione affronta il tema della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimato al dipendente in assenza di una situazione di crisi aziendale ma al solo fine di ridurre il costo del personale. Il caso di specie riguardava quale datrice di lavoro una società consortile che, a seguito del decremento del numero dei propri associati, redistribuiva le mansioni del personale impiegato, addivenendo alla soppressione di un posto di lavoro.
Tale evento faceva si che la lavoratrice individuata come in esubero impugnasse il licenziamento presso il tribunale competente, chiedendo l’applicazione della tutela obbligatoria di cui alla Legge n. 604/1966.
I giudici aditi, sia in primo che in secondo grado, dichiaravano l’illegittimità del licenziamento intimato, disponendo la riassunzione della prestatrice di lavoro o, in mancanza, il pagamento di una indennità risarcitoria pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La società consortile, pertanto, impugnava il provvedimento con ricorso in Cassazione denunciando un vizio di motivazione della sentenza di secondo grado che, pur avendo riconosciuto la necessità di contenimento del costo del personale posta a fondamento della risoluzione contrattuale, aveva negato l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo dal momento che la società non versava in uno stato di crisi irrimediabile.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla società consortile, effettuando un approfondito excursus della giurisprudenza pronunciatasi in merito al concetto di “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento, come delineato dall’art. 3 della Legge n. 604/1966.
Dopo aver precisato i limiti del sindacato giudiziale in ordine al merito delle scelte imprenditoriali (in accordo con il principio posto dall’art. 41 della Costituzione), i Giudice della Corte di Cassazione si sono soffermati sull’ipotesi di soppressione del posto di lavoro, ritenendola pacificamente compatibile con la figura del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Secondo il ragionamento motivato, tale scelta aziendale, che è comunque insindacabile sotto il profilo della sua opportunità ed efficacia, può conseguire da una diversa organizzazione tecnico-produttiva che abbia reso determinate mansioni obsolete o non più necessarie; o dall’esternalizzazione di determinate mansioni; o dalla soppressione di un intero reparto o dalla riduzione del numero di addetti, rivelatosi sovrabbondante rispetto all’impegno richiesto; o da una diversa ripartizione delle mansioni tra il personale in servizio, attuata ai fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale.
In quest’ultimo caso, fermo restando il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinati compiti tra più dipendenti, la redistribuzione – per essere legittima – non può costituire un mero effetto di risulta, ma deve rappresentare la causale del licenziamento.
Per i supremi Giudici, tutte le ipotesi delineate hanno la stessa finalità: migliorare la produttività aziendale.
Ogni incremento di produttività, infatti, si traduce sempre in un risparmio di costi, a nulla rilevando che tale contrazione serva solo a prevenire o contenere perdite di esercizio o sia destinata ad un incremento del profitto.
Così come affermato anche in una precedente statuizione (Cass. civ., sez. lav., n. 23620/2015) dove veniva considerato che un aumento del profitto si traduce non solo in un vantaggio per il patrimonio individuale dell’imprenditore, ma principalmente in un incremento degli utili dell’azienda, ovvero in un beneficio per l’intera comunità di lavoratori.
Pertanto, in sintesi, ai fini della legittimità del recesso datoriale, l’importante è che il fine perseguito– quand’anche sia un incremento della produttività – si esprima in un genuino mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva aziendale.
Quindi, l’incremento di produttività in termini di contrazione del costo di lavoro, se non accompagnato dal mutamento organizzativo, non può integrare il concetto di “giustificato motivo oggettivo” previsto dall’art. 3 della Legge n. 604/1966.
Sulla scorta di tali motivazioni, la Corte ha censurato la pronuncia di merito per aver erroneamente escluso la riconducibilità della fattispecie di ripartizione delle mansioni al giustificato motivo oggettivo di licenziamento ed accolto il ricorso della datrice di lavoro, ravvedendo che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento ben può consistere, in una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio, attuata ai fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, esse possono suddividersi fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate. Il risultato finale di tale riorganizzazione può legittimamente far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente, sempre che tale riassetto sia realmente all’origine del licenziamento, anziché costituirne mero effetto di risulta.
Licenziamento per riduzione dei costi del personale