Il rifiuto del lavaroratore di trasferirsi equivale alle dimissioni. Quanto enunciato è stato ribadito da una recente sentenza della Corte di Cassazione, sez. lavoro, del 15.03.2016 n. 5056
Il caso di specie è relativo ad una lavoratrice che con il ricorso in Cassazione si duole del fatto che la Corte di Appello abbia ritenuto legittimo il licenziamento intimatole dalla società datrice di lavoro per essersi rifiutata di eseguire l’ordine aziendale di mutare il luogo della propria prestazione lavorativa: non più a domicilio, ma presso i locali dell’azienda.
I principi del nostro ordinamento, a tal riguardo, prevedono che la determinazione del luogo della prestazione lavorativa rientra nella potestà organizzativa datoriale e può incontrare un limite solo nelle previsioni dettate in materia di trasferimento del lavoratore di cui all’articolo 2013 del c.c., che dispone che lo stesso possa essere attuato solo in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive.
Pertanto il trasferimento è illegittimo e può essere impugnato solo quando tali comprovate ed ineluttabili ragioni tecniche, organizzative o produttive non siano riscontrabili.
Il trasferimento del lavoratore è una misura che ricade nella discrezionalità del datore di lavoro e come tale è esplicazione del potere di libera iniziativa concessa all’imprenditore nell’esercizio dell’impresa (ex art. 41 Cost.), avendo egli la facoltà di valutare se ed in che misura una tale scelta sia necessaria sotto il profilo delle esigenze tecniche ed organizzative.
Per potersi parlare di trasferimento occorre lo spostamento definitivo del lavoratore dall’unità produttiva presso la quale è precedentemente addetto, per tale ravvisandosi qualunque articolazione autonoma dell’azienda avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità a esplicare, in tutto o parte, l’attività dell’impresa, anche se composta da stabilimenti o uffici dislocati in zone diverse dello stesso comune. Non è considerata unità produttiva l’ufficio o reparto con funzioni ausiliarie o strumentali. Il concetto di unità produttiva prevale su quello di ambito comunale, nel senso che la tutela opera anche per unità site nel medesimo territorio comunale ( Cass. 29 luglio 2003, 11660).
La Suprema Corte, valutando la situazione posta dinanzi al suo vaglio, ha attinto a tali principi e, quindi, ribadito che la determinazione del luogo della prestazione lavorativa rientra nella potestà organizzativa datoriale e incontra un limite solo nelle previsioni dettate in materia di trasferimento del lavoratore giungendo ad affermare la legittimità del licenziamento disciplinare della lavoratrice che si era sottratta alla direttiva di tornare a prestare l’attività lavorativa presso i locali aziendali anziché presso il proprio domicilio, nonostante la precedente decisione di disporre il cd. “lavoro a domicilio” fosse stata presa dal datore nell’ambito di proprie esigenze produttive ed organizzative, in quanto, come anche riportato in sentenza, non sarebbe possibile ravvisare un’autonoma unità produttiva presso il domicilio del dipendente, ove al massimo è possibile rinvenire una cd. “dipendenza aziendale” rilevante ai fini di cui all’art. 413 c.p.c.